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cap. 1 

Sono vecchio e stanco, come questa sedia a don-do-lo consumata dalle intemperie.

 

Vecchio e stanco. Vecchio e stanco. Vecchio e stanco. Vecchio e stanco... 

 

Dove sei primavera? Lontana da quest’autunno sfiorito, lontana nel tempo, lontana nell’anima, lontana persino nel ricordo. C’è solo questo fogliame ingiallito, ovunque, dentro e fuori e questo umido penetrante, che mi paralizza le ossa su questa vecchia sedia a don-do-lo, consumata dalle intemperie. 

 

Vecchio e stanco. Vecchio e stanco. Vecchio e stanco. 

 

Come mi chiamo?

C’è stato un tempo in cui, nel pronunciare il mio nome, sentivo tutto il mio essere vibrare e rispondere pronto. Ora è solo un’eco che rimbalza tra le pareti della mia anima, che non ha pareti, inchiodata a questa vecchia sedia a don-do-lo, consumata dalle intemperie. 

 

Vecchio e stanco. Vecchio e stanco. 

 

Ecco la campanella: un tocco, due, tre… Silenzio.

Gli ospiti di “Villa  Paradiso” sono invitati a riunirsi per il pranzo!

Non è ridicolo? Sono tre anni che abito qui e ancora si ostinano a chiamarmi ospite, come se fosse un gesto di riguardo. Che diamine! A me sembra di essere sul punto di partire da un momento all’altro. E forse un giorno lo farò.. farò un lungo viaggio, lontano da questa vecchia sedia a don-do-lo consumata dalle intemperie.

 

Vecchio e stanco.

 

Forza pelandrone è ora di alzarti!

E smettila di fare quella faccia crucciata! Sembri ancora più vecchio di quello che sei. Questa è la tua vita amico mio che ci vuoi fare? Guarda che brutto ceffo sei! Certo non hanno proprio tutti i torti “gli ospiti”, ma confessalo… ti fa piacere intimorirli un po’, così se ne stanno tutti alla larga e non ti infastidiscono con i  soliti ricordi lamentevoli. Se ti vedessero ora giocare, come quand’eri bambino, a fare i cerchi nell’acqua, e sorridere nel vedere la tua faccia scomporsi e ricomporsi… credevo fosse una magia!

Saranno tutti là per il pranzo. Ho ancora qualche minuto, prima che qualcuno si alzi e venga a cercarmi.

Com’era  la faccia da vecchio?

Dunque, dunque, mettevo la lingua sotto il labbro inferiore, inarcavo le sopracciglia e raggrinzivo il naso… oh sì proprio così… ma per dindirindina… sono più brutto del solito!!

E la faccia da signorino? Forza mio caro, animo! Non puoi tirarti indietro sul più bello: labbra in fuori, sguardo seducente e… caspiterina sono già arrivati!

Non credo mi abbiano visto… speriamo! Potrebbero ridere di me a lungo nei corridoi di Villa Paradiso.

Ora preparati a una bella sgridata vecchio mio!

 

Ma dove diamine s’è cacciato?

 

- SONO QUI…EHI VOI, SONO QUI, ADESSO ARRIVO!

- Ah eccola! Sa, credo di stare diventando un po’ sordo, perché non mi ero accorto della campanella… Ma che ha da fissarmi in quel modo, le ho già chiesto scusa…

- …

- Insomma DICA QUALCOSA!

- …

- Non mi pare di conoscerla…è un nuovo inserviente?

Forse un nuovo infermiere? Un volontario?

- …

- INSOMMA, sto perdendo la pazienza, vuol dirmi, per cortesia, CHI DIAVOLO È?


 

cap. 2

Indietreggiò, forse spaventato, e si nascose alla mia vista.

Sentivo i suoi passi sul selciato e il fruscio tra i cespugli: Lo chiamai. Lo richiamai. Niente da fare!

Il suo ostinato silenzio mi inquietava.

Avrei fatto subito esposto alla direzione e gliel’avrei fatta pagare perché, alla mia età, questi sono scherzi piuttosto antipatici.

Mentre parlavo tra me e me sentivo il cuore rimbalzarmi nel petto fin su per la gola. Credo mi seguisse.

Arrivai piuttosto trafelato, ma mi fermai, appena prima di svoltare l’angolo, per ricompormi un po’ e fermare quel leggero tremore che mi aveva invaso.

Ripresi il mio bastone e, a piccoli passi, con la calma che mi contraddistingueva, ripresi il cammino.

Girai l’angolo e … sobbalzai!

[…]


 

cap. 7 

[…]

Lui mi sorrise, come se avesse capito, e si alzò, come rapito da un pensiero, o da un’idea improvvisa. Senza più guardarmi, afferrò con decisione una vecchia tavolozza di legno imbrattata di colore e, da quella materia scomposta, da quei movimenti casuali, cominciò a concretizzarsi dinnanzi a me, quel qualcosa che io ancora faticavo a vedere.

Ero incantato. Seguivo con stupore quella danza di mani, a tratti lenta e indecisa, via via sempre più maestosa. Quelle tracce di colore sembravano regalare un soffio di vita alla tela insignificante, che poco prima giaceva abbandonata in un angolo della stanza.

Grandi labbra socchiuse volavano nello spazio, che sembrava infinito, di un blu acceso, come a chiedere incessantemente di uscire, per varcare i confini del loro limite oggettivo.

Non mi intendevo di pittura, non avrei saputo dire se questo era bello, artisticamente parlando, ma mi piaceva.

Solo quando il suo sguardo soddisfatto si pose alternativamente su di me e sul quadro, compresi che quello doveva essere il mio nome.

Sorrisi nel pensare che tutto il mio essere fosse racchiuso in quel movimento casuale di labbra, anzi, in quel volare casuale di labbra. Mai prima di allora avevo pensato alle mie labbra come a una parte così rappresentativa di me. [...]

 

 

cap. 13

[...]

Ogni cosa aveva un nome.

Ogni nome era l’immagine di quella cosa, disegnata nell’aria con le mani.

Le mani, erano matite di un corpo che tentava con ogni mezzo di parlare.

Parlare, disegnando l’aria.

Disegnare, tentando di esprimere emozioni.

Emozionare, cercando di comunicare.

 

Ciò che mi riusciva difficile comprendere erano i criteri sottostanti alla scelta degli elementi essenziali, che era necessario rappresentare per farsi capire.

Ogni gesto no era un elenco delle caratteristiche e qualità dell’oggetto e neppure una copia fedele di ciò che io vedevo, bensì… Bensì un gesto veloce, appena abbozzato.

Talvolta vedevo Mente-che-Vola in difficoltà nel ripetermi lentamente il movimento della mano. Sembrava come se, in quella scansione di tempo e ritmo, perdesse la melodia delle parole e faticasse a ricomporla.

Ogni gesto sembrava una sintesi di tante cose tutte insieme. Tentavo di ripetere fedelmente ogni suo movimento, di imparare e ricordare, ma intuivo che mi mancava un pezzettino. Un pezzettino importante…

Ancora lo cercavo, mentre accatastavo il legnaccio e il ferro vecchio assaporando la soddisfazione di un ordine crescente in quella che  presto sarebbe diventata la mia stanza.

La sentivo tanto più mia, quanto più percepivo che l’ordine, che stavo creando intorno a me, era l’ordine che stava nascendo dentro di me.

Via! Via tutto il vecchiume, lo squallore, il grigiore, le ragnatele di pregiudizi che imprigionano le cose, come le idee.

Via le cose inutili, accatastate dentro.

A che serve una sedia a tre gambe? O un tavolo, intarsiato dalle mani attente di un artigiano, se non ti è possibile appoggiarci niente, sgangherato come si ritrova?

 

Fu un lampo, come uno squarcio nella mente, come uno scoppio che abbatte pareti ed ebbi la certezza di aver trovato il mio pezzettino!

Parole disegnate si rincorrevano, come in una gara a staffetta; affollavano la mente e, nel caos, si ordinavano e trovavano posto, mentre un mondo sembrava spalancarsi con i suoi significati.

L'immagine di Mente-che-Vola si stagliò, nitida a raccontarmi il nome di ciascuna cosa.

 

La sedia è il gesto di sedersi; il tavolo è il piano per appoggiarvi le cose; la tazzina è il gesto del bere, più delicato, come delicato è sorseggiare; la forchetta è infilzare il cibo e portarselo alla bocca; il passero è un volare piccolo, con le mani giunte e solo tre dita aperte; l’aquila sono due braccia spalancate, che disegnano un volare maestoso. Il nome di ciascuna cosa era dunque la sua funzione, il suo compito, la sua peculiarità.

Ridevo della semplicità della mia scoperta e mentre ridevo e mi sentivo sussultare, picchiavo i polpastrelli sul petto. Ridere è sussultare dentro di allegria. […]